Sul monte Camicia, la risorgiva in grotta più alta degli Appennini

Fonte Grotta e ... fonte Grotta Nuova


Giornata ventosa, instabile, in giro nuvole potenti e alte che si formano e spariscono, ciò che rimane delle due giornate precedenti zuppe di scrosci e temporali. Oggi non era tempo per salire in quota, sulle creste esposte e sulle vette, Eolo quasi sicuramente ci avrebbe fatto conoscere il suo lato più fastidioso e petulante; oggi era giornata da rimanere bassi, giornata da dedicare a far passare il tempo, possibilmente in un contesto bello e panoramico. Campo Imperatore in questo senso non delude mai, puoi camminare dentro le sue steppe e farti stordire dalle lunghe dorsali tutto intorno e tornare a casa felice di aver vissuto una giornata di montagna; Campo Imperatore poteva essere la meta giusta oggi! Non più di tre settimane fa un amico mi parlò di un paio di grotte da visitare, alle falde, per meglio dire a metà della parete del Camicia che dà su Campo Imperatore; una delle due particolarmente ricca di concrezioni, sconosciute ai più, soprattutto la seconda, quella più lontana, quella più bella. Si tratta di Fonte Grotta, ho visto le foto che ha pubblicato ( www.auaa.it ), sono andato a curiosare anche in giro sul web, c’era poca documentazione ma quella che bastava per raccogliere le coordinate per andare a visitarle c’era tutta. Anche le indicazioni del buon Tonino erano più che sufficienti, quasi logiche e scontate, da come me le ha descritte, andandoci personalmente, ho come avuto la sensazione di esserci già stato; la giornata era speciale proprio per questo tipo di escursione, breve e poco impegnativa ma diversa ed interessante. Salire da Fonte Cerreto verso la piana di Campo Imperatore è sempre come la prima volta, superata Fonte Cerreto, oltrepassata la fascia di bosco fitto è la panoramica sulla lunga dorsale fino allo Ienca che stordisce sempre, il solito muro di montagne cui non ci si abitua mai, poi le dure linee del muro vengono sostituite da quelle morbide delle tante tonde elevazioni che gradatamente salgono fino all’altopiano; in mezzo a queste sfilano i profondi orizzonti che inquadrano ora il Sirente, ora la Majella ed ora i lontani Marsicani, costellate da laghetti di scolo e dalle mandrie sornione di mucche al pascolo. Il tempo si ferma salendo verso Campo Imperatore, è come se la vita improvvisamente corresse più piano, mi sento a casa in quelle tante curve che salgono, mi sento bene. Un altro muro lontano sbuca dai verdi manti erbosi, lentamente le frastagliate creste e le rugose e martoriate pareti prendono il sopravvento su tutto; sono le Torri di Casanova, l’Infornace ed il ruvido Prena. La piana si stende ai loro piedi, la strada gli scorre parallela, fila le tra praterie immense di un mondo antico ed immutato, e le bianche fiumane, il potente quanto misterioso e affascinante risultato della costante erosione di quelle pareti che laggiù continuano a fare da sfondo a questo mondo di primordiale bellezza. Mentre avanziamo lenti verso Fonte Vetica scorrono lente le montagne come fossero il sipario al palcoscenico dove oggi saremmo stati protagonisti; a destra si alza l’elegante cresta del Bolza, sotto i canyon contorti dove si fermano le fiumane sabbiose che scendono dal Camicia. Da solo due settimane il grande Bud non c’è più, viene quasi da cercarlo, lui e i suoi fagioli, in qualche angolo di questa solitaria steppa. Accompagnato da tutte queste emozioni e da pensieri leggeri giungo a Fonte Vetica. Parcheggio, tira un vento teso e fresco, occorre partire ben bardati e coperti, la cresta è sgombra di nubi ma non il torrione sommitale del Camicia che appare e sparisce tra veloci nuvolaglie, mi sa che lassù il vento sia cosa seria. Mi è tutto chiaro il percorso, si tratta di raggiungere quella evidente faglia, quella corona posta sulla pagina del monte Camicia che dà sulla piana di Campo Imperatore; tratti di sentiero ad altri dove si viaggia a vista, si inizia da quello per il vallone di Vradda, la “normale” per la vetta del Camicia. Si sfila accanto al rifugio di Fonte Vetica e quando il percorso si defila sulla destra, verso le coste del Tremoggia, ci si stacca a sinistra per aggirare il bosco che abbiamo davanti. Senza sentiero, nell’erba alta si costeggia il bosco per aggirarlo, se si entra tra gli alberi il terreno è pulito e si cammina meglio. La lingua del bosco che si protende nella valle è breve, quando si esce conviene tenersi bassi per entrare nel fosso del vallone di Vradda, lo si oltrepassa in corrispondenza di alcune briglie, opere contenitive delle fiumane che scendono dall’alto durante forti temporali, e si risale dall’altra parte dove le tracce di sentiero ritornano evidenti fino ad un bel fontanile posto a quota 1690mt, su una spianata con splendido affaccio su Campo Imperatore. Si prosegue in direzione del Camicia su una esile traccia che più avanti diventa evidente e che sale lentamente con ampi tornanti fino a superare il Colle del Omo Morto. Da qui si prosegue per tracce di sentiero verso la dorsale Sud che sale al Camicia, la faglia rocciosa è ormai a vista, fino a raggiungere un crinale, una sella poco sopra quota 2000. Di fronte si apre il profondo ghiaione della faglia che ha creato il verticale salto di roccia sulla parete Est del monte; una esile traccia sul ghiaione taglia il ripido versante per poche centinaia di metri, corre parallela alla corona di roccia e conduce esattamente di fronte all’ingresso di Fonte Grotta. Questo tratto è semplice da percorrere, in alcuni passaggi è un po friabile al limite del franoso ma si passa senza troppi problemi; un eccesso di sicurezza e prudenza consiglierebbe già da qui di indossare un casco di protezione, credo non sia impossibile che dall’alto possano cadere frammenti di roccia. All’interno di una nicchia naturale, dove va a terminare il sentiero, un muro artificiale ed una porta in ferro chiudono l’accesso alla grotta; la porta al primo impatto sembra chiudere di fatto l’accesso ma ad un controllo ravvicinato è semplicemente appoggiata e tenuta chiusa da grosse pietre messe ad hoc per spingerla verso l’uscio. Porta e pietre sono affogate in una pozza d’acqua cristallina che proviene dall’interno e che filtra tra le pietre della cengia verso valle. Rimuovo le rocce e sposto la porta con estrema curiosità ed eccitazione, si spalanca un’ambiente buio dove un ruscello rumoroso mi scende incontro. Le cospicue piogge hanno gonfiato la risorgiva, a dieci metri dall’ingresso uno sbarramento che dovrebbe convogliare l’acqua all’interno della canalizzazione che porta acqua alle fonti sul piano, viene rumorosamente superata creando una sorta di cascatella; entro lentamente per abituarmi al quasi buio, indosso la lampada frontale e aggiro il piccolo corso d’acqua, ai lati strati di roccia e sabbia riportata permettono di avanzare all’asciutto. Oltre lo sbarramento si forma un piccolo laghetto dai mille riflessi e dal colore trasparente, si supera sulla sinistra addentrandosi nella grotta che qui inizia a salire un po’ di quota. Sulla destra scorre veloce la risorgiva, un po’ di qua ed un po’ di là, saltando da una parte all’altra, ora con gli scarponi in acqua ora su delle rocce sporgenti mi inoltro nel canale della grotta che vira verso sinistra. La fioca luce dell’ingresso non arriva più, ora è solo la frontale a ridarmi indietro i colori di questo mondo sotterraneo. Le pareti della grotta sono a tratti ricoperte di concrezioni calcaree dai toni più diversi, il cunicolo costringe ad accucciarsi e più si va avanti più si è costretti a rimanere piegati sulle ginocchia, continua buio oltre il confine della luce della frontale, si intuisce per l’eco dello scorrere dell’acqua. Avanzo lentamente attento a non mettere un piede in fallo in questo ambiente scivoloso fin quando mi si apre davanti un tratto che bisognerebbe guadare di sana pianta; l’acqua mi arriverebbe al polpaccio, il che significherebbe inzupparsi completamente, mi accontento di quanto ho potuto fare, mi soffermo per scattare qualche foto e lentamente riprendo la via dell’uscita. L’ambiente è semplicemente quello di una risorgiva in grotta, stretto, buio e senza altre attrattive, solo poche sottili concrezioni che si sono formate sulla volta, ma sapere di trovarsi nel cuore del Camicia, a più di 2000 mt di altezza e con altri 500 mt di roccia sopra la testa ha di che farti entusiasmare. Non ho fretta di uscire, me la godo tutta. Una volta fuori richiudo per bene la porta così come l’ho trovata e mi concentro per raggiungere la grotta gemella, quella meno conosciuta e che normalmente si raggiunge dalla ex miniera a valle. Non c’è molta letteratura sulla seconda grotta, non è chiaro dove sia il punto di accesso, ho immaginato che potesse trattarsi di quel buio e piccolo foro che si notava un centinaio di metri più avanti, alla stessa altezza delle prima. Non impossibile ma molto rischioso sarebbe procedere in orizzontale, il ghiaione si fa via via più ripido ed inconsistente, oltre in alcuni tratti bagnato. E’ più prudente tornare indietro e riprenderlo dal basso. Così faccio, ritorno indietro fin quasi alla sella e prendo a scendere all’interno del ghiaione fin dove giudico possibile attraversare con meno difficoltà. Scendo di una settantina di metri e inizio il traverso su un terreno instabile di rocce e qualche affioramento bituminoso. Ogni tanto la risorgiva che scende dalle grotte ritorna in superficie, i guadi sono facili; cerco con lo sguardo il punto di salita dell’inconsistente piccola dorsale che ho davanti mentre inizio a salire di nuovo di quota. Senza un criterio che non sia quello di trovare sicurezza per il passo successivo salgo fino a sbucare sulla dorsale che mi rendo conto essere trattenuta dai tanti ciuffi d’erba che sono letteralmente dei solidii gradini anche per me. Salgo fino alla parete dando di tanto in tanto un occhio per cercare quel buco che vedevo da lontano; da sotto mentre salivo, da dentro il ghiaione e dalla dorsale non ce ne è traccia. Aggiro la parete a sinistra ma mi rendo ben presto conto che mi sto allontanando da quello che mi sembrava essere l’imbocco della grotta, torno indietro ed era a pochi passi da dove ero sbucato sopra la dorsale. Si tratta effettivamente dell’imbocco della seconda grotta, basta affacciarsi e un paio di metri più in basso un bel laghetto cristallino dentro cui miriadi di sgocciolamenti provocano concentrici piccoli “tsunami” mi fa l’occhiolino. Lascio lo zaino fuori, indosso il guscio, mi prendo la macchina fotografica, la frontale ed entro. Facile è l’accesso fino al limitare del laghetto immediatamente lì sotto, poi occorre fare un lungo salto, aggrappandosi alla roccia sotto l’ingresso, si passa sul lato opposto dove si intuisce uno sdrucciolevole passaggio per inoltrarsi in grotta. Il laghetto è lungo e più profondo del gemello dell’altra grotta, limpido e cristallino come solo l’acqua di montagna sa essere; la luce esterna si spegne subito, mentre la frontale illumina questa volta un mondo fantastico. Buio e sotterraneo come il precedente, ma più movimentato, su diversi piani si aprono sale successive e soprattutto le concrezioni calcaree si susseguono ovunque. Di piccole dimensioni stalattiti e stalagmiti scendono e si alzano ovunque; il soffitto in alcuni casi è una pioggia continua di piccoli aghi fittissimi, le pareti sono quasi costantemente ricoperte da colorate striature calcaree. Piccole lame di concrezioni tagliano il soffitto, mentre laghetti effimeri dove piccole e irregolari stalagmiti si alzano di poche decine di centimetri quasi fossero candele pronte ad accendersi ad illuminare questo mondo buio, si formano a destra e a sinistra. Lo stupore è grande, dopo la prima grotta presso che vuota da queste formazioni minerali, non ci si aspetta di immergersi in un mondo così ricco; quasi ci si sente intrusi, le poche concezioni di chimica, le poche conoscenze sull’argomento bastano per imporre un profondo rispetto per ciò che mi circonda. Le piccole infiltrazioni d’acqua che trasudano dalla volta scivolano sulle pareti ed evaporano liberando il carbonato di calcio che finisce per depositarsi ed accumularsi su se stesso. Il processo semplice a dirsi è lentissimo e quando è veloce l’accumulo di minerali non supera i 2 millimetri all’anno. Mi sento responsabile della mia intrusione, i movimenti si fanno attenti e circospetti, attenti a non urtare la più piccola di quelle esili sporgenze che scendono dalla volta; avanzo lento nelle varie sale attento a mettere i piedi sulla roccia grezza e non sulle levigate sculture che trovo a terra intorno a me. Avanzo lento ingordo di non perdere ogni dettaglio, cerco di fotografare tutto per portarmi a casa questa meraviglia del Camicia, mi fermo quando tocca accucciarsi troppo e diventa impossibile non impattare violentemente sul sistema. Mi ritiro lentamente, mi sento intruso ma beatamente solo in questo mondo insolito, la luce della lampada frontale colpisce le pareti e mi rimanda riflessi che penso innaturali, l’eco dello scorrere dell’acqua sotto ai miei piedi è l’unica musica che sento insieme a quella delle gocce che picchiettano a terra e nei laghetti. Mi fermo e spengo la frontale, il buio è totale, rimango per qualche momento nel buio più assoluto in ascolto di quanto ho attorno; non dimenticherò più questo momento. Non sono sazio ma mi avvio verso l’uscita, fine dell’incantesimo. Ora tocca decidere come ritornare indietro, prendo a scendere dentro l’imbuto ghiaioso, prima direttamente e poi di traverso, poi ancora diritto verso il basso e finisco per scivolare per qualche metro e capisco che percorrere in discesa questo ambiente è davvero insidioso. Sono abbastanza basso per decidere di traversare in salita, è più facile trovare passi sicuri, finisco per sbucare davanti alla prima grotta, da lì il sentiero fino alla sella è solo formalità. Nel frattempo non mi sono accorto che il cielo si era incupito, la vetta del Camicia è incappucciata e qualche goccia di pioggia di tanto in tanto non si fa mancare. La discesa è fuori sentiero, punto lo sbocco del vallone di Vradda e scendo praticamente in linea retta attraversando praterie. Velocemente rientro al parcheggio, l’escursione è durata solo quattro ore, percorsi pochi chilometri e superato un dislivello minimo (quattrocento mt), eppure ero pieno di quello che avevo fatto e visto. Un modo diverso di vivere il Gran Sasso.